
Per cui i commercianti hanno avuto buon gioco a vendere la cachaça con la scusa che era più buona (ed è vero, il che è tutto dire, vista la qualità pessima) e già pronta: ancora oggi nelle comunità lungo il fiume vengono scambiati kili di pesce o per 2 o 3 bottiglie di cachaça, visto che il denaro non si usa.

L’altra osservazione interessante riguarda la presenza missionaria, dei salesiani in particolare, che arrivarono qui all’inizio del ‘900: la ricerca li accusa senza mezzi termini di aver destrutturato le comunità indigene, facendogli perdere quella gerarchia e quelle tradizioni che erano da sempre il collante che le teneva insieme. I salesiani hanno cominciato a fondare scuole un po’ dappertutto (Sao Gabriel, Iauaretè, Içana, Taracuà,Pari-Cachoeira) nell’Alto Rio Negro: l’insegnamento era ovviamente in portoghese e di forte marca religiosa (basta pensare che fino agli anni 60 la messa anche qui si celebrava in latino per gli indios), per cui chi usciva dai collegi salesiani veniva poi spinto dai missionari stessi a farsi scegliere come capo villaggio (capitão, nel linguaggio di qui), che poi spingeva per far abbandonare le tradizioni come la poligamia, le gerarchie rigide ecc. In più i collegi fungevano da catalizzatori per riunire in nuove comunità che prima non esistevano, varie famiglie provenienti da luoghi (e a volte etnie) diverse. A tutto ciò si aggiunge la scoperta fatta, ahimè subito, dai portoghesi, della passione per la cachaça degli indios: i reclutatori di schiavi organizzavano grandi bevute collettive e poi caricavano gli uomini rincoglioniti dall’alcool sulle navi con cui li portavano a Manaus per lavorare (e morire) nelle piantagioni di caucciù o come manovali.
Insomma, tanto per cambiare, le responsabilità vanno attribuite al nostro desiderio di portare la civiltà e il nostro Dio a chi ha sempre vissuto in un equilibrio tanto efficiente quanto fragile con il mondo che li circonda. Oggi i missionari che lavorano con gli indigeni hanno un approccio totalmente diverso (meno male!): imparano le lingue (o meglio cercano, perché al di fuori dell’ Nhaangatu le altre sono impossibili), rispettano le tradizioni, gli usi e i costumi…come dice Giustina: “Noi qui siamo degli ospiti, questa terra è loro e noi dobbiamo comportarci come tali”. Certo i danni fatti in passato sono probabilmente irreparabili, la cosa che mi colpisce di più quando si ha a che fare con gli indigeni è il loro “sentirsi meno”: loro stessi si considerano inferiori ai bianchi, 300 anni di piedi in testa hanno prodotto questo tremendo “auto-razzismo” per i ragazzi a Sao Gabriel si vergognano a dire che parlano Baniwa o Tukano e qualsiasi cazzata arrivi da Manaus è considerata assolutamente il nonplusultra
No comments:
Post a Comment