Monday, 22 February 2010
Tutto quello che c'è da sapere sul carnevale
Il carnevale è a tutti gli effetti uno sport professionistico a Rio de Janeiro, Sao Paulo, Manaus, Recife e Salvador e come tale viene preso assolutamente sul serio, anzi per i brasiliani sembrerebbe molto strano il contrario, un po’ come il Palio di Siena per i senesi. Al carnevale partecipano le scuole di samba, che sono delle specie di circoli ricreativi (le più antiche sono dell’inizio ‘900) che si identificano con il quartiere in cui sono nate o con la zona: ovviamente come non si cambia squadra di calcio nella vita o contrada a Siena, così si tifa per la scuola di samba del proprio quartiere, o, nel caso di quelle di Rio (le più famose) esattamente come da noi un po’ dappertutto si tifa per Inter,Juve o Milan. Le scuole più famose di Rio sono: Mangueira (quella per cui tifo io, viola e verde, chiamata un po’ pomposamente “a mais querida do planeta”, la più amata del mondo), Beija Flor (azzurro e bianco), Salgueiro (verde e bianco, vincitrice l’anno scorso), Imperatriz (verde-bianco-oro), Portela (blu-bianco), Mocidade (bianco-verde)
A Manaus la rivalità più grande è quella tra Grande Familia (la scuola del mio quartiere, Sao Josè, e in genere di tutta la zona est di Manaus, bianco-rossa), Aparecida (bianco-azzurro, che rappresenta i quartieri di Compensa e Alvorada) e Vitoria Regia (il centro) che negli ultimi anni si sono divise sempre i titoli. La Grande Familia è la scuola con più carnevali vinti, incluso un ottimo 3 su 4 negli ultimi anni, (a Rio è Mangueira, che però non vince da anni) ed il vero orgoglio di Sao Josè, un quartiere molto disprezzato a Manaus perché il più pericoloso e pieno di problemi. Le scuole di samba fanno anche un sacco di attività sociali soprattutto con anziani e poveri. Ovviamente il carnevale viene preparato tutto l’anno e gli ultimi mesi si fanno prove tutte le sere perché la coordinazione tra i vari blocchi e la batteria e soprattutto i movimenti devono essere perfetti.
Come funziona un carnevale: intanto come per il campionato di calcio esiste una serie A (chiamata “grupo especial”) e una serie B (“grupo di acesso”), a Rio anche la Serie C. Le prima della serie B, che sfila il venerdì e sabato, viene promossa in serie A, che sfila domenica e lunedì, da dove retrocede l’ ultima. A Manaus la Serie A è composta da 10 scuole, a Rio da 12. Ogni scuola conta su sponsor che ovviamente danno più denaro quanto più la scuola è importante, per intenderci a Rio le scuole più famose hanno come sponsor Coca-cola, McDonald, Gilette, banche e case automobilistiche varie. I trafficanti che controllano le favelas investono anch’essi milioni di reais per la propria scuola. I soldi servono soprattutto a costruire i carri e i costumi ma anche a “comprare” i migliori carnevaleschi, cioè chi pensa a come fare i carri, le musiche, i costumi ecc, insomma delle specie di allenatori. Chiaramente è motivo di orgoglio avere il proprio carnevalesco che mai tradirà la scuola. Ogni scuola sceglie un tema che presenterà alla sfilata, che può essere di qualsiasi genere: storia,scienza,costume,geografia,musica, natura ecc ecc. Il tema deve essere sviluppato coerentemente attraverso i carri,i costumi e la musica. La musica deve essere originale, suonata dal vivo e deve essere una samba. Anche i migliori compositori sono celebrità che vengono trattati come star. Ogni scuola ha un’ora (un’ora e 20 a Rio) per entrare, sfilare e uscire dal sambodromo, lo stadio dove si svolge il carnevale, che è in pratica un tratto di strada circondato da tribune. Chiaramente il rispetto del tempo è essenziale, uscire dopo la scadenza sarebbe come fare un autogol a calcio. Per ogni scuola esiste una Commissao da frente, un gruppo di ballerini che apre la sfilata e introduce il tema con un balletto, un mestre de sala e una porta bandeira, uno dei ruoli chiave della sfilata. Sono una coppia che danza, lei con un vestito ampio e con gonna tonda, tenendo la bandiera della scuola, lui danzando intorno: qui i movimenti, la sincronia e l’affiatamento sono fondamentali un errore qui può compromettere tutta la sfilata. Viene poi la bateria, cioè chi suona e canta la musica composta per il tema, che si ripete a nastro, cioè appena finisce ricomincia per varie e varie volte, fino all’uscita. Quando la batteria arriva alla fine del sambodromo chiaramente non può uscire perché i carri che arrivano resterebbero senza musica, quindi si posiziona in un luogo apposito a lato. Dietro la bateria c’è la rainha da bateria (regina della bateria), che è la madrina della scuola. Di per sé la rainha da bateria non porta punti essenziali alla scuola ma è un ruolo di grande prestigio, per cui a Rio sono le attrici, modelle e cantanti più famose che vengono chiamate dalle varie scuole. La qualità essenziale è essere stra-figa e saper sambare, entrambe sono cose presenti in abbondanza in Brasile.
Questi sono i ruoli extra-carri, poi ogni carro è composto da una fantasia che lo precede, due ali, cioè persone ai lati del carro dette harmonia (qui abbiamo sfilato io e Domingo nel 2007, quando abbiamo vinto il titolo con la Grande Familia), che devono chiaramente cantare e ballare, ma hanno il compito specifico di dare il tempo della sfilata del carro. Su ogni carro ci sono i ballerini e un personaggio principale che è una specie di re (o regina) del carro. Ogni scuola impegna circa duemila persone.
Vince chi fa il punteggio maggiore, determinato da una serie di parametri che hanno un valore da cui vengono tolte le varie penalità, segnate dai vari giudici lungo il percorso. I giudici vengono resi noti solo un giorno prima della sfilata per evitare casi di corruzione, comunque sempre invocati da chi perde, insomma come da noi per il calcio, quando si perde è sempre colpa dell’arbitro. Si prendono penalità se i movimenti dei vari blocchi non sono armonici, se la distanza tra i carri e i vari blocchi non viene rispettata (ci sono delle linee che la segnano e poi la prova Tv come nel rugby), quindi se un carro va o troppo forte o troppo piano, se non c’è coerenza immediatamente comprensibile tra i carri (e a volte non è così capibile), e poi ci sono punti per la musica, i costumi, i carri e la sfilata nel suo insieme. Ovviamente per un profano è impossibile cogliere la differenza a un livello tale di professionalità: la prima volta che si guarda il carnevale di Rio in Tv sembrano tutti bravissimi e senza difetti, ma in effetti un po’ il commento degli esperti, un po’ l’occhio dopo alcuni anni e si riescono a cogliere le differenze. Lo spettacolo comunque è meraviglioso e il la partecipazione della gente incredibile. Due anni fa ho avuto la fortuna di essere a Rio e avere i biglietti tramite il mio amico Marcos per assistere alla sfilata di gala, quella che le prime 5 scuole classificate fanno una settimana dopo il carnevale per celebrare la vittoria: è un’ esperienza unica!
Così come è stato incredibile sfilare con la Grande Familia 3 anni fa. Dopo aver provato tanto (non è che sono esattamente un ballerino nato) trovarsi all’entrata del sambodromo con adrenalina e tensione a mille e tutti concentrati, poi i cancelli si aprono e tu entri in questo catino dove 80,000 persone fanno un tifo incredibile per cui ti carichi a mille, la sfilata sembra durare 5 minuti invece di un’ ora e poi arrivi fuori sudato marcio, come se lo avessi fatto in apnea. Torni sotto le tribune dove ci sono i tuoi tifosi a prendere i cori e gli applausi. I risultati vengono resi noti il giorno dopo quindi c’è tutta l’attesa e l’emozione di sentire mano a mano i nomi delle altre scuole fino al tuo in cima alla classifica. Da lì in poi cominciano giorni e giorni di celebrazioni e feste per tutto il quartiere e tu vai in giro con la maglia di chi ha sfilato con la gente per strada che ti fa i complimenti e ti acclama…e poi si pensa già a difendere il titolo l’anno dopo
Sunday, 21 February 2010
Caxirì & Cachaça

Per cui i commercianti hanno avuto buon gioco a vendere la cachaça con la scusa che era più buona (ed è vero, il che è tutto dire, vista la qualità pessima) e già pronta: ancora oggi nelle comunità lungo il fiume vengono scambiati kili di pesce o per 2 o 3 bottiglie di cachaça, visto che il denaro non si usa.

L’altra osservazione interessante riguarda la presenza missionaria, dei salesiani in particolare, che arrivarono qui all’inizio del ‘900: la ricerca li accusa senza mezzi termini di aver destrutturato le comunità indigene, facendogli perdere quella gerarchia e quelle tradizioni che erano da sempre il collante che le teneva insieme. I salesiani hanno cominciato a fondare scuole un po’ dappertutto (Sao Gabriel, Iauaretè, Içana, Taracuà,Pari-Cachoeira) nell’Alto Rio Negro: l’insegnamento era ovviamente in portoghese e di forte marca religiosa (basta pensare che fino agli anni 60 la messa anche qui si celebrava in latino per gli indios), per cui chi usciva dai collegi salesiani veniva poi spinto dai missionari stessi a farsi scegliere come capo villaggio (capitão, nel linguaggio di qui), che poi spingeva per far abbandonare le tradizioni come la poligamia, le gerarchie rigide ecc. In più i collegi fungevano da catalizzatori per riunire in nuove comunità che prima non esistevano, varie famiglie provenienti da luoghi (e a volte etnie) diverse. A tutto ciò si aggiunge la scoperta fatta, ahimè subito, dai portoghesi, della passione per la cachaça degli indios: i reclutatori di schiavi organizzavano grandi bevute collettive e poi caricavano gli uomini rincoglioniti dall’alcool sulle navi con cui li portavano a Manaus per lavorare (e morire) nelle piantagioni di caucciù o come manovali.
Insomma, tanto per cambiare, le responsabilità vanno attribuite al nostro desiderio di portare la civiltà e il nostro Dio a chi ha sempre vissuto in un equilibrio tanto efficiente quanto fragile con il mondo che li circonda. Oggi i missionari che lavorano con gli indigeni hanno un approccio totalmente diverso (meno male!): imparano le lingue (o meglio cercano, perché al di fuori dell’ Nhaangatu le altre sono impossibili), rispettano le tradizioni, gli usi e i costumi…come dice Giustina: “Noi qui siamo degli ospiti, questa terra è loro e noi dobbiamo comportarci come tali”. Certo i danni fatti in passato sono probabilmente irreparabili, la cosa che mi colpisce di più quando si ha a che fare con gli indigeni è il loro “sentirsi meno”: loro stessi si considerano inferiori ai bianchi, 300 anni di piedi in testa hanno prodotto questo tremendo “auto-razzismo” per i ragazzi a Sao Gabriel si vergognano a dire che parlano Baniwa o Tukano e qualsiasi cazzata arrivi da Manaus è considerata assolutamente il nonplusultra
La vita a Sao Gabriel

In Colombia non se ne parla perché il presidente Uribe deve passare come colui che ha sconfitto le FARC, in Brasile ovviamente perché politicamente sarebbe poi difficile da giustificare visto che ufficialmente non accade nulla. In realtà la situazione è abbastanza singolare: in città ci sono parecchi guerriglieri “nascosti”, uso le virgolette perché nascondersi in un posto dove tutti sono indigeni tranne una piccolissima minoranza e in più parlando solo spagnolo, non è molto facile…comunque quelli che stanno qui commerciano droga in cambio di armi sostanzialmente….con l’esercito, lo stesso che alcuni kilometri più a nord gli spara addosso…potere del denaro e della cocaina! In più ricordo che anni fa sono stato a Cucuì, il villaggio proprio sulla frontiera lungo il Rio Xiè e mi ricordo la vigilanza dell’esercito, non esattamente la stessa della DDR ai tempi del muro….3 o 4 ragazzi morti di caldo e di noia che dormivano o giocavano a pallavolo o fischiavano alle ragazze mentre sul fiume davanti a loro passava di tutto, compreso il mio amico Josimar con la barca carica di benzina, comprata di contrabbando in Venezuela, che gli faceva ciao ciao con la mano. Adesso a Sao Gabriel di notte il fiume illuminato dalle veloci barche a motore delle FARC che caricano e scaricano droga e armi e si dice che esistano enormi magazzini nascosti nella foresta e sulla serra che vengono man mano svuotati quando si trasferisce la droga a Manaus
Davide - Cobra 1-0
L’episodio mi dà lo spunto per parlare dell’idea che hanno gli indios della malattia: nessun male fisico viene dal nostro corpo, tutti sono originati da malefici che qualcuno fa contro di noi. Anche il serpente era lì perché qualcuno lo ha fatto andare. L’idea secondo me è molto bella, significa che la natura non è nostra nemica e che anche noi stessi non possiamo farci del male. Ho rivisto qui Rosy, l’infermiera di Vicenza, da anni in Amazonas, che anni fa aveva ammazzato di lavoro me e il Riki Gionta nei 5 giorni che avevamo passato da lei a Taracuà, il villaggio a 2 giorni di barca da Sao Gabriel, dove ha costruito e gestisce un piccolo ospedale, lavorando soprattutto con la medicina popular come vengono chiamati qui i rimedi che gli indios usano per curarsi, estratti da piante e animali o frutto di strani intrugli. Il personaggio è davvero particolare: un donnone di 60 anni e un metro e di 90 con una carica e una vitalità spaventose, come avevamo imparato a nostre spese. Sopravvissuta a 3 o 4 cadute nel fiume, nonostante non sappia nuotare, a varie fratture e infezioni, malarie e dengue assortite, il suo metodo di lavoro è conosciuto e copiato in tutto l’Alto Rio Negro ed a Taracuà da anni insegna a ragazze di tutta la zona (cioè giorni e giorni di barca) a curare con tutto ciò che è reperibile nella foresta. Lei mi diceva per esempio che è difficile che gli indios muoiano per un morso di serpente a meno che non siano già debilitati, o anziani o bambini: di solito per ogni morso esiste una cura. Per esempio il morso della Jararaca, considerato ultra-mortale, si può curare se entro brevissimo tempo prendi il serpente, lo apri e ne mangi il fegato. Ora, a parte trovare il fegato dentro un serpente,m i chiedo come diavolo si faccia a restare talmente lucidi da rincorrere il serpente che ti ha appena morso e catturarlo…mah… Le fratture invece si curano con dei bagni di acqua, un’ erba particolare, e ossa di una specie di scimmia. Ad ogni male poi è associata una cerimonia di purificazione e di cacciata del maleficio che lo ha provocato, una specie di aspirina o citrosodina…..quelle cose che vanno sempre bene. E’ curioso come a Manaus si trovino centomila bancarelle nei vari mercati che vendono ogni genere di queste erbe e misture per curare (quelle per fare sesso per ore e ore con nomi tipo “quebra-cama” - spacca letto - sono immancabili), spessissimo usate nei rituali di macumba e umbanda (ne parlerò), mentre qui che tutti le usano nessuno le vende.
Monday, 15 February 2010
Adriana
Sabato è arrivata qui in casa una nuova ospite, Adriana, 12 anni e 30 kili: il padre è stato ucciso in una rissa tra ubriachi, la madre resta fuori casa tutto il giorno per cercare lavoro e così lei rimane in casa con la sorella più piccola e il fratello di 15 anni. Soffre di una grave forma di denutrizione tanto che non riesce a fare le scale da sola perché le gambe non la reggono e per qualsiasi cosa le viene il fiatone, perfino quando mangia. E’ rimasta 1 mese all’ospedale militare e ora, non si capisce bene per quale motivo, l’hanno dimessa ed il giudice dei minori l’ha affidata alla casa. Ma al suo arrivo è bastato poco per capire che oltre all’evidente denutrizione (ha 11 anni ma fisicamente ne dimostra 5 o 6) è in questo stato anche perché è stata avvelenata, i vicini dicono in una lite con la vicina di casa.
Tra gli indios, mi hanno spiegato, è una “pratica” molto comune l’uso dei veleni per regolare litigi o torti subiti: la maggior parte sono prodotti e usati per cacciare (tra cui il famoso curaro usato con le cerbottane durante la conquista portoghese e spagnola) ma hanno gli stessi devastanti effetti anche sugli esseri umani e per quasi tutti non c’è cura.
Il principio è sempre quello di impedire la coagulazione del sangue (è lo stesso principio con cui sono fatti da noi i veleni per topi. Ricordo quando avvelenavano i miei gatti, povere bestie morivano veramente soffrendo) per cui chi è avvelenato letteralmente vomita sangue da ogni orifizio possibile: bocca, occhi, orecchie, naso ecc. Adriana deve avere assunto una piccola quantità di veleno se è ancora viva, ma questo non impedisce di perdere sangue nel modo descritto.
Il suo caso è grave, vediamo se rimanendo qui e alimentandosi decentemente (per fortuna mangia con appetito) riuscirà a recuperare il peso. Per il veleno il trattamento che sta facendo dovrebbe aiutarla a espellere tutte le tossine.
Lei vuole tornare a casa; sabato pomeriggio è riuscita a scappare da qui e arrivare a casa (non so come visto lo stato in cui è) così siamo andati a recuperarla tra pianti e una sostanziale indifferenza della madre.
Thursday, 11 February 2010
Il mio arrivo e i progetti a Sao Gabriel do Cachoeira
Una veloce digressione geografica: c’è una differenza tra Amazonas, che è uno degli stati che compongono il Brasile (come se fosse la California o il Connecticut, anche il Brasile è una repubblica federale come gli USA) e
Amazonìa, che è invece l’area geografica ricoperta dalla foresta, che comprende, oltre a Amazonas, anche gli stati di Rondonia,Roraima,Amapà,Parà,Acre (dove ha vissuto Chico Mendes) e una parte di Mato Grosso,Maranhao e Tocantins. Questo per dire che quando parlo di Amazonas intendo lo stato, cioè una “piccola” parte della foresta (per dire quanto piccola, lo stato di Amazonas da solo sarebbe il 18° paese del mondo per superficie…)
Manaus è la capitale dello stato di Amazonas, una metropoli di circa 2,5 milioni di abitanti (tutta l’Amazonas ne ha 3 milioni…) di cui vi racconterò più avanti, quando ci tornerò; Sao Gabriel do Cachoeira (cachoeira significa “cascata”, in questo caso riferito alle rapide del Rio Negro che si trovano proprio di fronte alla città) è invece, come dicevo, l’unica città che esiste nell’enorme area dell’ Alto Rio Negro, ha circa 45.000 abitanti, 9 su 10 indigeni di varie etnie (c’è un grande mix, per me, da buon occidentale, sono tutti uguali, ma in realtà ci sono Arapaço, Baniwa, Barasana, Baré, Desana, Hupda, Karapanã, Kubeo, Kuripako, Makuna, Miriti-tapuya, Nadob, Pira-tapuya, Siriano, Tariano, Tukano, Tuyuka, Wanana, Werekena e Yanomami.).
Infatti qui, primo caso in Brasile, sono riconosciute come ufficiali 4 lingue:il portoghese (che quasi nessuno parla), il Nheengatu, il Tukano e il Baniwa, quest’ultima la lingua più parlata, mentre il Nheengatu si insegna a scuola ed è una specie di “inglese” locale. Sono tutte lingue orali, codificate nella forma scritta da linguisti bianchi negli anni 60-70, ma in realtà ancora oggi non esiste lo scritto, a parte i libri di scuola.
Sao Gabriel, pur essendo cresciuta moltissimo negli ultimi anni (quando ci sono stato l’ultima volta nel 2000 era poco più di un grosso villaggio), sembra ancora molto una città dei film del Far West: c’è una strada principale in cui ci sono vari negozi, la posta, la banca, il mercato e un hotel e poi una serie di case di legno o lamiere sparse per tutti i dintorni, come se fossero piccole comunità separate. Completano il quadro la “cattedrale” con la casa del vescovo, il campo da calcio e le solite 50mile chiese evangeliche che ormai nascono come funghi in tutto il Brasile, le enormi caserme dell’esercito (per la sua posizione vicino alle frontiere la città è considerata punto strategico, quindi ci sono un sacco di militari che però vivono quasi isolati dentro le caserme) e il piccolo edificio dell’Università Federale. Sullo sfondo le montagne chiamate “Bela Adormecida” perché il profilo ricorda una donna sdraiata e dietro la città la “serra”, una piccola collina la cui scalata mi è costata sudore, litri di sangue ceduto alle zanzare e anni di vita, ma in cima il panorama merita. In uno dei “quartieri” della città, Miguel Quirino, c’è da alcuni anni il progetto Kunhantãi Uka Suri (in Nheengatu significa “casa della ragazza felice”), gestito dalle suore salesiane, dove attualmente vive e lavora Giustina. E’ un’esperienza molto interessante: su un enorme terreno della diocesi che era incolto è stata creata una comunità il cui spirito è quello della Casa Mamae Margarida a Manaus – creare un luogo accogliente e che possa dare delle opportunità di crescita alle adolescenti – ma il cui modello è stato pensato dentro la cultura locale: così invece che una casa sono state create diverse capanne sparse su questa area ed una grossa capanna centrale che serve da casa delle suore, accoglienza e alloggio per le ragazze che vivono qui (al momento sono circa 14, come a Manaus tutte con storie di violenza o abbandono alle spalle). Nelle altre capanne invece sono stati creati un laboratorio per la lavorazione della fibra di Tucum (il “tessuto” tradizionale con cui gli indigeni fabbricano amache,borse,vestiti ecc), un altro per la fabbricazione di cesti,vasi ecc e un forno per la preparazione della farina di mandioca, l’alimento tradizionale indigeno (nonché il menu di pranzo e cena insieme all’immancabile riso, insomma una variazione locale del solito riso&fagioli di Manaus). La farina viene prodotta per l’auto-consumo (ma si sta pensando di venderla), gli altri oggetti per la vendita tramite i canali del commercio equo-solidale e quelli del turismo a Manaus, dove sono molto richiesti. Chi lavora in questi “laboratori” non sono ovviamente le bambine, per motivi etici, ma donne che accedono qui con la formula dei micro-prestiti e a cui le suore forniscono in pratica il luogo e gli strumenti per lavorare ed i contatti per la vendita. Accanto a queste attività c’è la comunità vera e propria dove circa 200 bambine\adolescenti sono accolte ogni giorno per imparare le attività tradizionali, studiare, giocare e…mangiare.
Il mio lavoro qui consiste nel seguire per ora 2 progetti, uno delle suore, uno della diocesi: Giustina ha infatti ottenuto un finanziamento del Banco do Brasil per creare una “estaçao digital” (una specie di internet point), mentre la diocesi ha un grosso progetto per creare una comunità di recupero per alcolizzati (cioè tutti qui!) che possa lavorare soprattutto con le famiglie. Nel primo caso il progetto è già avviato, quindi io devo solo scrivere i report, contattare i fornitori a Manaus, capire come organizzare i trasporti, come far funzionare la cosa e un’altra serie di questioni molto pratiche, mentre per la diocesi devo proprio scrivere il progetto e vedere a chi chiedere i soldi per finanziarlo.
Quello dell’internet point potrebbe sembrare non esattamente una priorità in un posto del genere (così come non sembrava a me), ma in effetti il governo brasiliano ha informatizzato tutta la burocrazia, per cui non avere accesso a internet significa sostanzialmente non godere di alcuni diritti: la pensione, i certificati, le iscrizioni scolastiche ecc.; insomma rimanere cittadini di Serie B, cosa che gli indigeni già percepiscono abbastanza nella vita di tutti i giorni.
In più ho già partecipato alla prima riunione del “consiglio dei diritti sociali”, questo tavolo creato da Giustina che riunisce tutti coloro che in città si occupano di questioni sociali: in realtà la prima riunione è consistita nel pulire il locale che la prefettura ha messo a disposizione e poi purificarlo tramite dei rituali condotti da anziani Tukano (sostanzialmente danze e musica e un’affumicata generale alla stanza con un fuoco rituale su cui il leader della comunità ha vegliato per 3 giorni e 3 notti). Giustina ha mandato per l’occasione suor Elizabeth, un’ottantenne tedesca da 51 anni in Amazonas, ma che ha conservato la disciplina e lo spirito prussiano, oltre ad un accento portoghese\tedesco molto buffo, che ha messo in riga tutti gli uomini che dopo 2 minuti di orologio che pulivamo erano già seduti in un angolo con una birra.
Accanto al lavoro “ufficiale” c’è poi il tempo passato con le ragazzine qui alla casa, un’esperienza molto diversa da quella di Casa Mamae Margarida: qui le ragazze sono molto introverse (tratto tipico indigeno), ubbidienti, educate, schive, anche se molto affettuose (o meglio carenti di affetto), tutto il contrario di quella bolgia infernale che c’è a Casa MM.
Pensavo infatti a come le ragazze di là se le mangerebbero vive!
Questa è una (lunga) introduzione, prossimamente vorrei parlarvi un po’ della questione indigeni\alcool (che è realmente una piaga sociale), delle FARC colombiane, che a Sao Gabriel fanno lucrosi affari, di come cambia il mondo indigeno e di altre amenità...